In Europa circa 60 milioni di persone vivono con malattie cardiovascolari, che sono responsabili di un decesso su tre (circa 1,7 milioni di morti all’anno nell’Ue) con costi annuali stimati di 282 miliardi di euro.
Per questo il Consiglio dell’Unione Europea ha chiesto un impegno maggiore per la salvaguardia della salute cardiovascolare. «Che non vuol dire solo curare meglio ma anche occuparsi dei fattori di rischio: sedentarietà, stress, carenza di sonno, ipernutrizione e, da non sottovalutare, l’inquinamento». Nicola Montano va dritto al punto sottolineando che l’inquinamento dell’aria è il più importante fattore ambientale di malattia e ricordando che, proprio per accrescere la consapevolezza dell’opinione pubblica, è stato appena pubblicato il documento Inquinamento dell’aria e malattie cardiovascolari.
Docente di Medicina Interna all’Università di Milano e direttore della Struttura complessa di Medicina – Immunologia e Allergologia del Policlinico di Milano, Montano è il presidente della Società italiana di medicina interna (Simi) ed è membro del gruppo di lavoro dell’Alleanza Italiana per le malattie cardio-cerebrovascolari che ha redatto il documento in questione.
«Le malattie cardiovascolari – dice – rappresentano la prima causa di morbidità e di mortalità nel mondo occidentale, e stanno aumentando anche nei paesi in via di sviluppo, perché il miglioramento delle condizioni generali di vita porta a un aumento di queste problematiche. C’è una relazione molto forte infatti con gli stili di vita. I fattori genetici contano per circa il 40% del rischio di malattia, il 60% invece è legato a stili di vita e a ciò a cui siamo esposti, quindi anche all’inquinamento».
Ma professore, quali sono le principali relazioni tra inquinamento dell’aria e malattie cardiovascolari?
«Tutti gli studi epidemiologici di popolazione che hanno messo in relazione le malattie cardiovascolari all’esposizione all’inquinamento atmosferico, in particolare alla presenza di particolato, hanno trovato una correlazione positiva. Così come c’è anche per le malattie metaboliche, come per esempio il diabete, e per le patologie mentali. Tutte queste patologie, croniche, sono accumunate da un meccanismo di rischio importante che è l’infiammazione».
Cioè?
«La presenza di inquinanti, il particolato in particolare, produce uno stato di infiammazione di basso grado (chronic low-grade inflammation) che è un fattore di rischio per tutte le patologie croniche».
Nel documento sottolineate l’urgenza di affrontare il problema ed evidenziate il fatto che non si può pensare di prevenire e salvaguardare la salute cardiovascolare della popolazione non facendo nulla per migliorare la qualità dell’aria.
«Si tratta di un testo di carattere scientifico in cui condividiamo lo stato dell’arte su quello che si sa in merito al rapporto tra patologie cardiovascolari e inquinamento. L’obiettivo è sensibilizzare popolazione e classe politica. Accendiamo cioè un riflettore su ciò che fa male alla salute affinché i decisori politici possano prendere provvedimenti adeguati e diamo indicazioni utili ai cittadini affinché possano ridurre l’esposizione all’inquinamento atmosferico. Ma non solo il particolato ha un effetto negativo sulla salute. Anche il surriscaldamento causato dal cambiamento climatico, che comporta grosse variazioni nell’esposizione al gran caldo (per molti più giorni l’anno) e al gran freddo (per meno giorni), è responsabile di milioni di morti.
Uno studio, che il mio gruppo ha condotto sugli arresti cardiaci nella Milano metropolitana, ha riscontrato che, all’aumentare del particolato, aumentavano gli arresti cardiaci. Ma non solo: a parità di particolato, le temperature oltre i 23 gradi si associavano a un incremento di circa il 30% degli arresti. Questo vuol dire che c’è un effetto sinergico tra inquinamento e aumento delle temperature».
A proposito, nel documento evidenziate che l’impatto dell’inquinamento dell’aria va oltre la salute individuale, ha una serie di implicazioni socio-economiche e richiede politiche efficaci di mitigazione e adattamento. Parlate della necessità di promuovere uno sviluppo sostenibile. Insomma, è necessario favorire un approccio One Health?
«Decisamente sì. E non dobbiamo dimenticarci dell’impatto ambientale dei sistemi sanitari globali. Se fossero una nazione sarebbero la quinta nazione per emissione di gas serra. Del resto, ogni volta che facciamo una tac, una risonanza magnetica, un intervento chirurgico inquiniamo, liberiamo CO2. A tal proposito, uno studio che abbiamo pubblicato su European Journal of Internal Medicine mostra che se riducessimo il numero di esami radiologici, come tac e risonanze, eseguiti in maniera inappropriata, potremmo ridurre molto l’emissione di carbon fossile da parte dei sistemi sanitari».
Insomma, l’appropriatezza clinica ha anche una ricaduta ambientale?
«Esattamente».
Professore, proprio a proposito di appropriatezza delle cure, qual è il ruolo della medicina interna nell’organizzazione medico-ospedaliera?
«La medicina interna rappresenta la spina dorsale del sistema ospedaliero. Noi svolgiamo un’attività cruciale, di ponte tra il territorio e il paziente: che entra in ospedale dal pronto soccorso, viene preso in carico nei nostri reparti e dopo il percorso diagnostico-terapeutico esce.
Quando si parla di boarding in pronto soccorso, di sovraffollamento e di pazienti in attesa di un posto letto, non si può pensare di risolvere il problema solo agendo a livello di queste strutture. Bisogna migliorare tutto il processo, cioè il percorso del paziente».
Cioè?
«Se ci sono pazienti in reparto che non possono esseri dimessi, i cosiddetti “bed blockers”, per problematiche sociali o perché non ci sono strutture di bassa intensità fuori dall’ospedale che possono accoglierli, ovvio che mancano posti letto per chi è in pronto soccorso.
Uno studio Simi-Fadoi che abbiamo condotto in Lombardia dimostra che i reparti di medicina interna hanno circa 20-25% bed blockers, pazienti che rimangono ricoverati più del necessario perché non c’è la possibilità di dimetterli, al domicilio o in altre strutture».
A fronte di queste carenze (mancano risorse, manca personale, ecc.) e in generale della crisi del sistema sanitario nazionale, qual è la sfida principale per la medicina interna nell’ottica di (ri)mettere il paziente al centro del sistema salute, di curare la persona e non solo la malattia?
«Noi svolgiamo un ruolo centrale e in tal senso abbiamo proposto in varie regioni e anche a livello nazionale un modello in cui la medicina ritorni a essere come era un tempo, ovvero il bacino principale di presa in carico di pazienti ospedalieri complessi. Lo illustriamo in un articolo dal titolo eloquente: Internal medicine in the 21st century: Back to the future.
Il problema del sotto-finanziamento del sistema sanitario nazionale è ovviamente una questione rilevante da affrontare, ma se anche aumentassimo ora i finanziamenti, senza riformare un sistema nato 45 anni fa, quando i pazienti, la società, le condizioni socioeconomiche erano profondamente diverse, vorrebbe dire fallire di nuovo. Serve innanzitutto una riforma seria, profonda, di ampio respiro e lungo termine del Ssn, che è uno dei più belli ed efficienti del mondo, ma che attualmente resiste soprattutto per l’impegno e il sacrificio di tutto il personale sanitario, infermieri e medici».
Guardando altrove, almeno su questo fronte, le cose funzionano meglio?
«Quando, alcuni anni fa, sono stato presidente della European Federation of Internal Medicine, ho avuto l’opportunità di studiare l’organizzazione di molti sistemi sanitari europei, in particolare quello della Spagna e del Portogallo, che hanno una situazione economica, culturale e sociale simile alla nostra.
Ebbene, in Spagna c’è un’organizzazione molto chiara: il paziente va dal suo medico di famiglia che lavora in una Casa della salute, che è aperta sette giorni su sette e dove lavorano più medici con il personale infermieristico. Il medico qui può fare esami di primo livello. Se ha dubbi e ritiene che il paziente debba andare in pronto soccorso chiama il collega e lo invia direttamente. Oppure, ha a disposizione digitalmente le agende dell’ospedale di riferimento e può organizzare e prenotare le visite ambulatoriali.
E anche una volta dimesso, il percorso di presa in carico del paziente è estremamente valido grazie alla telemedicina. Anche noi dovremmo seguire questo iter, ma a noi manca la medicina del territorio. E mancano medici. E mancano letti. Secondo il nuovo Annuario statistico del Servizio sanitario nazionale del ministero della Salute, abbiamo perso 10mila posti letto negli ultimi dieci anni.
In particolare, ci servono posti letto di bassa intensità, soprattutto per quei pazienti che non riusciamo a dimettere e rimangono inappropriatamente in reparto di medicina per acuti. Ospedali e case di comunità, realmente operative, aiuterebbero il Ssn».
E allora qual è il ruolo della medicina interna nella difesa del sistema universalistico del nostro servizio sanitario?
«Noi ci occupiamo del malato da quando è acuto a quando diventa cronico. Dobbiamo immaginare la medicina interna come il dipartimento più grande di un ospedale, dove gli internisti gestiscono i pazienti con una costellazione di specialisti. Come accade ora negli Stati Uniti e come stanno facendo in UK, riorganizzando gli ospedali.
Nel 2008 il sistema sanitario inglese è andato in default perché negli anni 70 era stata eliminata proprio la figura dell’internista. In quegli anni l’età media della popolazione era bassa, ma nel frattempo i sessantenni di allora sono diventati novantenni con almeno 5-6 patologie, 12 farmaci a bordo, problemi complessi e fragilità diverse da gestire. E il sistema è saltato.
Perché l’internista è una figura imprescindibile: ha una visione globale dello stato del paziente. È come un direttore d’orchestra che chiama di volta in volta il musicista che deve suonare quello strumento proprio in quel momento.
L’invecchiamento della popolazione e l’aumento delle malattie croniche e dei pazienti con multimorbilità pongono i sistemi sanitari di fronte a molteplici sfide. E i modelli sanitari basati principalmente su cure mediche specialistiche portano a cure frammentate che, oltre a non giovare al paziente, sono inefficienti per il sistema a causa dell’eccessivo ricorso a atti medici ridondanti. La medicina interna fornisce una visione olistica incentrata sul paziente e non sulla malattia. Gli internisti dovrebbero quindi svolgere un ruolo chiave sia nella cura dei pazienti acuti, stabilendo modelli di cura condivisi in team multidisciplinari, sia nel garantire la continuità delle cure ai pazienti cronici, partecipando allo sviluppo di nuovi modelli di assistenza extraospedaliera che utilizzino le risorse tecnologiche disponibili».
Da ottobre scorso è presidente della Simi: quali gli obiettivi del suo mandato?
«Dobbiamo lavorare per risolvere due grandi problematiche. Dobbiamo comunicare meglio, perché i cittadini non conoscono il ruolo del medico internista, e dobbiamo ottenere il giusto riconoscimento rispetto a quanto già ora facciamo nei nostri reparti di degenza.
Non è possibile che il numero di medici e infermieri nei nostri reparti sia ancora quello legato alla legge Donat Cattin del 1988, che definisce le strutture ospedaliere di medicina interna “reparti a bassa intensità di cura”.
I pazienti degli anni ’80 non sono paragonabili a quelli di oggi. Nello studio che citavo prima, condotto in collaborazione con Fadoi, abbiamo osservato che il 30% dei pazienti ricoverati nei nostri reparti è acuto o instabile. Quindi una battaglia che ci impegna, insieme alla Federazione delle associazioni dei dirigenti ospedalieri internisti, è il riconoscimento dell’intensità di cura elevata, con conseguente necessità di incremento della componente infermieristica e medica nei nostri reparti».