“Noi, in pratica, vediamo il futuro da vicino”. In modo straordinariamente fresco e suggestivo Enrico Deluchi, Amministratore Delegato di PoliHub, ci racconta la vita all’interno di PoliHub, l’ecosistema in cui startup, aziende, esperti, istituzioni, investitori trovano l’ambiente più fertile per coltivare nuove occasioni di business. Con una sede principale a Milano e una distaccata a Lecco, l’acceleratore d’impresa del Politecnico di Milano rappresenta un ricchissimo vivaio di startup deep tech che generano valore per la società e l’economia verso un modello di progresso sostenibile, grazie a scienza e tecnologia.
Che cosa significa presiedere una “grande fabbrica” di startup come PoliHub?
«È molto divertente essere alla guida di una grande fabbrica. Che poi, PoliHub non è proprio un grande fabbrica…In realtà noi siamo una startup sia come dimensioni del conto economico sia come dimensioni organizzative. E soprattutto, come una startup, siamo costantemente alla ricerca del nostro business model, nel senso che le cose vanno veloci a tal punto che, quando si crede di aver trovato la ricetta giusta, è già venuto il momento di cambiarla. Nel mondo dell’innovazione a cambiare non è soltanto la tecnologia, ma anche il modo di farla, i concorrenti, i player, i regolamenti. Cambiano cioè mille cose, per cui dobbiamo essere agili esattamente come una startup. Essere alla guida di questa realtà è un lavoro stupendo perché si frequentano persone con competenze incredibili e si è a contatto con ogni possibile aspetto della scienza o della tecnologia. Noi in pratica vediamo il futuro da vicino. Ecco, posso dire che in PoliHub abbiamo una fortuna rispetto ad altre persone che magari vivono dentro l’accademia. Un docente, per esempio, sicuramente intravede il futuro e ha una maniglia sulla tecnologia molto più forte rispetto a quello che abbiamo noi, ma tipicamente un docente ce l’ha sulla sua disciplina e sulla sua materia. E del resto sa molto poco, al di là di quello che può conoscere per curiosità o interesse personale. Noi invece non arriviamo in profondità, però abbiamo una visione trasversale di tante discipline e tanti aspetti. E, soprattutto, abbiamo un elemento che invece raramente possono avere i docenti, cioè la capacità di intravvedere la componente business, cioè capire come un’innovazione possa arrivare al mercato e risolvere problemi ed esigenze. Sappiamo far diventare queste invenzioni innovazioni che poi diventano prodotti e poi ancora azienda. Infine, cosa non secondaria, c’è la soddisfazione di osservare un progetto crescere, come un genitore con un figlio o un maestro con un discepolo. È qualcosa che davvero riempie la vita e aiuta a interpretare questo ruolo quasi come una missione, come un civil servant in un Paese in cui le parole innovazione e impresa sono ancora poco comprese».
Quanti progetti raccogliete all’anno, e quanti di questi fanno parte della galassia del life science?
«Tra tutte le categorie possibili e immaginabili, vediamo tra i 1.000 e 1.200 progetti all’anno. Lavoriamo più o meno con un centinaio di questi, cioè nel senso che spendiamo del tempo per aiutarli. Quelli con cui spendiamo tanto tempo sono quelli poi più promettenti, quelli più che riceveranno gli investimenti da parte dei fondi di venture capital e quant’altro. Quindi diciamo che più o meno quelli che poi diventano veramente startup con i muscoli forti e in grado di crescere saranno all’incirca 15 all’anno, quindi in rapporto del 10% sul totale.
I progetti del settore delle life science occupano a dir la verità una parte non particolarmente rilevante, o meglio occupano una buona parte nelle fasi iniziali. Anche perché dal Politecnico, che è una delle nostre fonti principali di dealflow, ci arrivano circa 200 progetti all’anno.
Di questi 200 che provengono dal Politecnico, circa il 20 e il 25% sono nel settore delle life science. Mediamente vediamo una cinquantina di progetti life science all’anno, poi ne seguiamo davvero un paio».
E chi è che raggiunge il venture capital? Chi ottiene cioè il finanziamento robusto?
«Quello del life science è uno dei settori più difficili da finanziare perché richiede investitori specializzati. E di investitori specializzati nel life science in Italia ce ne sono pochi. Parliamo di progetti che rimangono in università per tanti anni, e spesso nascono ibridi nel senso che vedono la partecipazione di docenti, magari di istituti clinici o di ospedali. Sono progetti che inoltre impiegano tanto tempo a sbocciare. Poi, una volta che emergono, devono seguire percorsi specifici e deterministici, con parecchie certificazioni e prove cliniche. C’è poco da fare, nel life science, gli iter di approvazione sono molto codificati ed è più facile che vengano svolti meglio da chi fa soltanto quello nella vita. Quindi noi normalmente seguiamo i progetti quando nascono, proprio quando sono a un livello tecnologico ancora abbastanza acerbo nella validazione. Scoviamo quelli più interessanti e li aiutiamo a impostare un approccio di azienda. Dopodiché li accompagniamo per i primi passi. Poi, se questi progetti riescono a trovare investitori e una strada percorribile, mettiamo a diposizione tutta una serie di partnership con altri soggetti simili a noi che però sono specializzati soltanto in questo settore e nelle fasi regolatorie successive. Non per niente PoliHub ha proprio nel life science il numero più ampio di partecipazione con altri soggetti che fanno accelerazione di varia natura».
Chi sono esattamente questi altri soggetti?
«Abbiamo relazioni, per esempio, con Bio4Dreams, acceleratore specializzato in startup innovative in fase very early stage e dedicato alle scienze della vita, ma lavoriamo anche con Fondazione Golinelli, con l’Istituto Gemelli di Roma per tutto quello che riguarda le parti legate all’intelligenza artificiale e i data science applicati al dato clinico, con dipartimenti specifici del CNR, con il Centro Clinico NeMO per tutto quello che riguarda le malattie degenerative. A seconda della disciplina, quindi, abbiamo tutta una serie di relazioni, di rapporti con altri soggetti con i quali riusciamo ad accompagnare le startup. Anche nelle fasi successive, perché, come dicevo prima, non possiamo essere specialisti di tutto e bisogna avvalersi di qualcun altro con competenze specifiche verticali.
Il nostro obiettivo è far nascere imprese e aiutarle a crescere, non tenerle per mano per tutta la vita».
Parliamo delle terapie digitali. Dal suo osservatorio quale sviluppo può avere questo tipo di mercato in Italia, un Paese peraltro molto in ritardo con le normative?
«Diciamo che le terapie digitali appartengono al futuro della cura. Alcune già esistono, ma magari non è stato conveniente classificarle come terapie per tante ragioni. Mi riferisco per esempio alla cura di problemi dell’apprendimento, ai disturbi come la dislessia o la discalculia. In PoliHub abbiamo visto tanti progetti in questo ambito. Ma, pur di non prendere un percorso sanitario e imboccare il lungo iter delle certificazioni, preferivano muoversi su un’altra strada. Comunque, a prescindere da come funzionano i regolamenti in Italia, assistiamo a una fortissima spinta globale, quindi prima o poi anche il nostro Paese si adeguerà. Per esempio PoliHub ha incubato Advice Pharma, la prima CRO biodigitale italiana che sviluppa soluzioni di ingegneria informatica studiate appositamente per fornire servizi innovativi alla ricerca medico scientifica. In pratica, abbiamo presso di noi un’azienda molto importante, oramai non più una startup, ma una scaleup, che del tema delle terapie digitali ha fatto proprio il cavallo di battaglia. E secondo me nasceranno tante realtà simili, ma non so quante necessariamente dal mondo politecnico. Dico questo per una semplice ragione: i nostri ingegneri del dipartimento di elettronica, informatica e bioingegneria lavorano e producono tantissimo hardware. Mentre le terapie digitali sono per definizione puro software. E hanno necessità di una fortissima base clinica. Come detto, in PoliHub abbiamo alcuni di questi progetti, ma in numero decisamente minore rispetto ad altri tipi di startup per i quali vedo una continua produzione da parte della ricerca. In ogni caso il lato software è fortissimo in Politecnico, destinato però ad altri tipi di applicazioni, come per esempio i potentissimi sistemi di calcolo per la genomica, l’intelligenza artificiale per risolvere problemi diagnostici o la realtà aumentata per coadiuvare la pratica chirurgica. Il software, quindi, c’è e viene usato ampiamente, ma non rappresenta la terapia per il cui sviluppo serve una solida competenza medica più che ingegneristica».
Che tipo di mediazione svolge un incubatore come PoliHub tra la startup piccolina e la big company?
«Il nostro ruolo è importante: le startup sono praticamente tutte B2B e hanno bisogno di validazione sia tecnica sia di mercato. Devono cioè produrre qualcosa che funzioni in un ambiente industriale e soddisfi un bisogno concreto. È fondamentale quindi aiutare le startup a dialogare con le imprese, perché queste verifiche si possono fare soltanto parlando con chi è già dentro l’industria. Spesso io dico che siamo come Tinder, la famosa piattaforma di incontri online, facciamo matching, accoppiamo imprese che stanno cercando innovazione con le startup che vogliono entrare nel mercato. Siamo, in un certo senso, broker di conoscenza perché facciamo incontrare chi ha un bisogno di saperi e chi questi saperi li ha già. In alcuni casi siamo noi stessi portatori di sapere, ma molto spesso i portatori di conoscenza sono esterni al nostro ecosistema. E quindi da questo punto di vista siamo anche broker di relazioni: la startup cerca l’impresa per compiere certi passaggi di validazione, mentre l’impresa cerca le startup perché deve crescere in un’ottica di open innovation. Il nostro è insomma un lavoro di mediazione culturale tra due soggetti che naturalmente non si parlerebbero.
Inoltre, aiutiamo la startup a non farsi fagocitare, a non farsi “maltrattare” dalle aziende che spesso sono come un gorilla con in mano un gattino. Senza rendersene conto a volte lo ammazzano. Questa forma di tutela da parte nostra si concretizza attraverso la scelta di determinate forme contrattuali e di strumenti oggettivi che siano vantaggiosi per entrambi. Dall’altra parte, invece, affianchiamo le aziende nel capire come devono organizzarsi, anche perché questi soggetti hanno dei vincoli e devono essere aiutati a infrangere certe regole e certi tabù. In definitiva noi lavoriamo tanto con le startup quanto con le imprese. Diciamo che siamo dei veri e propri abilitatori di innovazione».