Uno studio clinico della Fondazione Tettamanti e dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII ha dimostrato che le cellule CARCIK, linfociti T geneticamente modificati ottenuti da donatori sani, sono efficaci e ben tollerate nel trattamento della leucemia linfoblastica acuta di tipo B recidivata.
Questa forma di leucemia, che rappresenta circa l’80% dei casi pediatrici, colpisce oltre 400 bambini ogni anno in Italia. Lo studio ha coinvolto dei 36 pazienti (32 adulti, 4 bambini) ed è stato pubblicato su Blood Cancer Journal.
L’83% dei pazienti ha ottenuto una remissione e il 57% era vivo a un anno dal trattamento. «Nei 17 pazienti che prima della terapia sperimentale avevano ricevuto un solo trapianto allogenico e avevano ridotto la quota di malattia leucemica midollare sotto al 5%, la mediana di sopravvivenza non è stata ancora raggiunta e a tre anni è pari al 58%», afferma il medico che ha seguito i pazienti, Alessandro Rambaldi, direttore del Dipartimento di oncologia ed ematologia dell’ASST Papa Giovanni XXIII di Bergamo e professore Ordinario di Ematologia all’Università Statale di Milano. Lo abbiamo intervistato.
Prof. Rambaldi, quali tipologie di pazienti sono stati trattati con questa terapia CARCIK?
«La terapia CAR T è stata somministrata in un contesto sperimentale a pazienti in fase molto avanzata del loro percorso terapeutico. Tutti i pazienti avevano precedentemente ricevuto almeno un trapianto allogenico, con il 25% che aveva già subito due trapianti allogenici. Questo rappresenta uno stato di malattia estremamente avanzato con prospettive di trattamento gravemente compromesse».
Qual era l’obiettivo della terapia CARCIK per questi pazienti?
«Utilizzare linfociti allogenici, cioè da donatore, invece che del paziente per sfruttare cellule più sane e performanti. L’obiettivo era dimostrare che i linfociti CD8 non provocano la malattia del trapianto contro l’ospite (Graft versus Host Disease, GvHD), uno dei principali rischi associati ai trapianti di cellule allogeniche, cosa che abbiamo confermato. Inoltre, circa un quarto dei pazienti ha ottenuto una remissione duratura. Questo approccio si inserisce nella visione di sviluppo di terapie cellulari da donatori sani immediatamente disponibili».
I pazienti trattati con CARCIK sono guariti o necessitano ancora di monitoraggio?
«Le remissioni che durano oltre tre anni aprono alla speranza di guarigione, anche se non si può parlare di certezza. Nella leucemia acuta linfoblastica, recidive anche dopo 8-10 anni sono rare ma possibili. Restare in remissione a tre anni è comunque molto incoraggiante, visto che il rischio più alto di ricaduta è nei primi due anni».
In che modo le CARCIK differiscono dalle CAR-T convenzionali in termini di sicurezza ed efficacia?
«Le CARCIK sono tecnicamente CAR-T allogeniche CD8+ ottenute da donatori sani. Le CARCIK si distinguono principalmente per il metodo di modifica genetica, che utilizza la tecnologia del transposone – un plasmide elettroporato e incorporato stabilmente nel DNA delle cellule – anziché vettori retrovirali o lentivirali. Questo approccio offre potenziali vantaggi in termini di sicurezza, sebbene lo studio attuale con 36 pazienti non abbia la numerosità sufficiente per trarre conclusioni definitive.
Va comunque sottolineato che anche con le CAR-T convenzionali che hanno vettori virali, eventi avversi gravi come tumori secondari sono estremamente rari. La vera innovazione delle CAR-CIC risiede nell’utilizzo di cellule più sane provenienti da donatori, aprendo prospettive di ricerca per un impiego più ampio di linfociti da donatori sani come fonte per generare cellule CAR modificate».
E per quanto riguarda gli effetti collaterali?
«Con le CARCICK sono stati osservati effetti collaterali significativamente attenuati rispetto alle terapie CAR-T convenzionali. L’infusione è stata generalmente ben tollerata, con minore incidenza delle complicanze tipiche come la sindrome da rilascio citochinico e la sindrome neurologica.
Questa ridotta tossicità potrebbe essere attribuita alla composizione del prodotto cellulare, costituito prevalentemente da cellule CD8 positive con una modesta componente di CD4, potenzialmente meno propense a rilasciare abbondanti citochine infiammatorie. Ma bisogna essere prudenti: il nostro obiettivo primario era dimostrare l’assenza di graft-versus-host disease. Alcuni ipotizzano che una tossicità minore possa significare anche minore efficacia, ma serviranno altri studi».
Quali sono le implicazioni in termini di scalabilità delle CARCIK?
«I costi di produzione con vettori non virali sono circa un decimo rispetto a quelli con vettori virali. Inoltre, usando cellule da donatori sani, si ottiene un prodotto più standardizzabile e riproducibile. È un cambiamento importante rispetto alle attuali CAR-T, che sono state eccezionalmente autorizzate come farmaci nonostante la loro intrinseca variabilità, dovuta non ai produttori ma alle diverse condizioni dei pazienti e alla loro storia clinica. Questo approccio è in sviluppo anche in altri centri internazionali, come in Germania, confermando il suo potenziale».
In che modo l’esperimento con le CARCIK apre nuove possibilità terapeutiche?
«L’uso di cellule da donatori sani rende l’approccio più semplice rispetto all’autologo. Basta un prelievo di 50-60 cc di sangue periferico, senza leucoaferesi, e le cellule ottenute sono più numerose e sane non essendo state compromesse da precedenti cicli di chemioterapia.
Inoltre, la tecnologia non virale permette di trattare pazienti oggi esclusi dalle CAR-T convenzionali, come quelli con linfoma e infezione da HIV. Le CARCIK rappresentano quindi un’opzione terapeutica per aree cliniche non coperte dai prodotti commerciali».
In quale direzione, dunque, evolverà la ricerca sulle CARCIK?
«In questo momento ci stiamo concentrando soprattutto sulle leucemie mieloidi acute. È il nostro primo obiettivo come ematologi, e stiamo lavorando per arrivare a sviluppare un prodotto mirato. Alcune forme di leucemia mieloide acuta esprimono CD7 in modo aberrante, e terapie CAR mirate a questo antigene sono in fase di valutazione, sebbene attualmente siano più consolidate nella leucemia linfoblastica T. Per questa forma un programma è stato avviato da Franco Locatelli a Roma».
Per quanto riguarda i tumori solidi?
«Al momento restano solo ipotesi, almeno per quanto mi riguarda. Forse a breve avremo qualche lavoro sperimentale di laboratorio, ma nulla di pubblicato ancora. La sfida è trovare antigeni abbastanza specifici da colpire il tumore senza danneggiare tessuti sani».
Quali sono le sfide ancora aperte per perfezionare queste terapie?
«Le CAR-T hanno permesso di guarire pazienti che non avevano altre opzioni. Un risultato straordinario. Ma se guardiamo ai linfomi o ad alcune leucemie con prodotti già in commercio, la percentuale di remissione duratura è intorno al 40-45%.
Sono passati dieci anni dai primi lavori, e quel 40% resta un traguardo. Ma significa anche che più della metà dei pazienti non risponde. L’immunoterapia è promettente, ma siamo solo all’inizio. Servono nuove strategie, nuovi prodotti, e tanta ricerca. Ecco, quello che manca è un investimento più forte nella ricerca accademica. Nessuna azienda ha inventato le CAR-T: tutto è partito dall’accademia».
C’è un modello da cui prendere spunto? Penso al caso dell’ospedale di Barcellona con terapia CAR-T, poi sviluppata da un’azienda indiana e approvata in India…
«Anche noi abbiamo collaborato con una realtà americana che ha una piccola spin-off. Ci hanno dato una mano importante nello sviluppo dei nostri prodotti, anche se sono aziende piccole, con difficoltà economiche. Qualche imprenditore italiano ci ha sostenuto agli inizi di questa avventura, e questo è stato fondamentale. Ma se vogliamo rendere queste terapie accessibili e sostenibili su larga scala, servono investimenti maggiori».
E voi, come ricercatori, cosa potete fare in attesa che il sistema segua?
«Il nostro compito è pubblicare i risultati. I dati sono lì, visibili, valutabili. È da lì che parte tutto. E se qualcuno vorrà prenderli in considerazione, fare delle scelte, noi ne saremo felici. Ma oltre a questo, il nostro margine d’azione è limitato».
Ci sono realtà che vi hanno sostenuto finora?
«Assolutamente. Il supporto più solido e continuativo in questi dieci anni è arrivato da AIRC, insieme alla Fondazione Tettamanti e ad AIL, sezione Paolo Belli di Bergamo. Sono loro che dobbiamo ringraziare davvero».