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Italiani all’estero: Claudio Mauro e la rivoluzione del lattato nel sistema immunitario

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Michela Moretti

Perché ne stiamo parlando
Originario del Salento, dall’Università “Federico II” di Napoli ai laboratori di Londra e Birmingham, oggi guida ricerche anche sul legame tra obesità, infiammazione persistente e invecchiamento cellulare.

Claudio Mauro, Professore Ordinario di Metabolismo e Infiammazione all’Università di Birmingham, è un ricercatore di fama internazionale che ha contribuito in modo determinante a ridefinire il ruolo del lattato nella regolazione della risposta immunitaria.

Originario del Salento, il suo percorso accademico lo ha portato dalle aule dell’Università “Federico II” di Napoli ai laboratori di Londra e Birmingham, dove oggi guida ricerche d’avanguardia anche sul legame tra obesità, infiammazione persistente e invecchiamento cellulare. Mauro racconta a INNLIFES la sua traiettoria professionale e le scoperte che stanno aprendo nuove strade nella comprensione e nel trattamento di malattie autoimmuni e infiammatorie croniche.

Prof. Mauro, quali sono state le tappe fondamentali della sua carriera?

«Ho studiato Biotecnologie Mediche all’Università “Federico II” di Napoli, e successivamente ho conseguito il dottorato di ricerca in Oncologia ed Endocrinologia Molecolare, sempre a Napoli. La mia carriera all’estero è iniziata con una borsa di studio dell’Airc che mi ha permesso di lavorare come postdoc all’Università di Chicago, nel laboratorio del Prof. Guido Franzoso.

Ho seguito il suo gruppo all’Imperial College di Londra per quattro anni, sempre come postdoc. Nel 2011 ho ottenuto la mia prima posizione da docente al Queen Mary University of London, nella loro facoltà di medicina; nel frattempo, ho vinto una fellowship della British Heart Foundation e nel 2018 mi sono trasferito all’Università di Birmingham dove sono professore ordinario dal 2020».

Su quali aree di ricerca si è concentrato negli ultimi anni?

«Quando sono arrivato al Queen Mary, ho iniziato a focalizzarmi sull’immunometabolismo, un’area di ricerca esplosa nell’ultimo ventennio. Fino a vent’anni fa si pensava che i meccanismi metabolici cellulari fossero semplicemente processi di base per la generazione di energia, non collegati alla risposta immunitaria. Negli ultimi due decenni abbiamo scoperto che la glicolisi, il ciclo di Krebs e altri processi metabolici sono fondamentali per la funzione immunitaria».

Può parlarci della sua scoperta riguardante il lattato?

«Il mio laboratorio si è concentrato sul lattato, o acido lattico. Per circa 50 anni il lattato è stato considerato semplicemente un prodotto di scarto della glicolosi utilizzata dai tumori per produrre energia e sostenere la loro rapida proliferazione.

Il mio gruppo, insieme ad alcuni altri ricercatori circa dieci anni fa, ha cambiato radicalmente questa visione. Abbiamo dimostrato che il lattato non è un semplice scarto metabolico, ma una “metabochina”, cioè come una molecola segnale, capace di influenzare il comportamento delle cellule immunitarie, come fanno le citochine, che sono messaggeri del sistema immunitario. Per esempio, elevate concentrazioni di lattato possono sopprimere l’attività delle cellule immunitarie, come i linfociti T, riducendo la capacità del sistema immunitario di riconoscere e attaccare le cellule tumorali.

Questa scoperta, avvenuta tra il 2014 e il 2015 grazie a studi condotti in parallelo dal mio gruppo al Queen Mary e da un team della Yale University, ci ha portati a essere tra i primi a dimostrare che il lattato è in grado di modulare attivamente la risposta immunitaria.

Abbiamo scoperto che è possibile intervenire sul metabolismo del lattato con finalità terapeutiche e da allora numerosi gruppi di ricerca hanno sviluppato quest’idea in varie direzioni: alcuni si sono focalizzati su specifici trasportatori del lattato, altri sui recettori, altri ancora hanno scoperto un meccanismo di modificazione post-traduzionale delle proteine chiamato “lattilazione”».

Quali sono le implicazioni pratiche di queste scoperte?

«Il lattato è stato collegato a numerose patologie: tumori, malattie autoimmuni, cardiovascolari e infettive. In tutti i tessuti infiammati, il metabolismo del microambiente cambia e si accumula lattato. Mentre alcuni gruppi di ricerca si concentrano sulla riduzione della produzione di lattato, il nostro approccio è diverso: ci focalizziamo sul suo “sensing”, cioè sul modo in cui le cellule percepiscono la presenza di lattato. Anche se il lattato è presente, possiamo modulare la risposta immunitaria intervenendo sul suo trasportatore o recettore nel microambiente.

Per portare in clinica queste ricerche abbiamo creato una startup, Solute Guard Therapeutics (SGTX), che sviluppa terapie mirate ai trasportatori del lattato espressi da specifiche cellule immunitarie per trattare malattie infiammatorie e autoimmuni. Non siamo gli unici in quest’area della sperimentazione: esistono altre startup come Novasenta dell’Università di Pittsburgh e grandi aziende farmaceutiche come Eli Lilly che stanno sviluppando approcci simili».

Lei lavora anche su un’altra area di ricerca. Di che cosa si tratta?

«L’altra area su cui lavoriamo riguarda gli acidi grassi, sia saturi come il palmitato che insaturi come gli omega-3, e il loro effetto sulla risposta immunitaria adattativa. In questo ambito ci siamo concentrati sull’obesità e sulle sue conseguenze. Abbiamo dimostrato l’esistenza di una “memoria dell’obesità” nella risposta immunitaria adattativa.

Questo significa che la perdita di peso non coincide immediatamente con gli effetti benefici che ci si aspetterebbe: c’è un ritardo, probabilmente calcolabile in anni, durante i quali una persona deve mantenere il peso forma per ridurre effettivamente l’infiammazione dovuta alla precedente obesità.

Nel 2017 abbiamo pubblicato su Cell Metabolism uno studio che mostra questo meccanismo di “imprinting” sui linfociti T causato dall’obesità. Attualmente abbiamo un articolo in fase di revisione, in cui dimostriamo che, anche dopo la perdita di peso, sia nei modelli murini che nelle coorti umane, i linfociti T rimangono programmati a produrre infiammazione per un lungo periodo. Capire e “resettare” questi imprinting potrebbe aprire nuove strade per terapie che contrastino invecchiamento precoce e malattie croniche».

Quale è il link con l’invecchiamento?

«Molti dei meccanismi metabolici e infiammatori legati all’obesità sono coinvolti anche nei processi che accelerano o modulano l’invecchiamento cellulare. In particolare, lo stato infiammatorio cronico è uno dei motori principali dell’invecchiamento precoce e dello sviluppo di malattie legate all’età, come aterosclerosi, diabete di tipo 2 e neurodegenerazioni.

Questi temi di ricerca saranno investigati come parte di UNION, un progetto finanziato con 3,4 milioni di euro e 1,1 milioni di sterline che ha riunito esperti in fragilità, biologia dell’invecchiamento, immunometabolismo e cellule staminali. Il nostro obiettivo è individuare i determinanti molecolari dell’invecchiamento e della fragilità, consentendo lo sviluppo di interventi per migliorare la salute nella popolazione anziana. Nei prossimi quattro anni, UNION formerà 17 giovani dottorandi, 13 nell’UE e 4 nel Regno Unito, attraverso progetti mirati a identificare strategie per rallentare il processo di invecchiamento».

Keypoints

  • Claudio Mauro è professore ordinario di Metabolismo e Infiammazione all’Università di Birmingham ed è tra i ricercatori che hanno ridefinito il ruolo del lattato nella risposta immunitaria
  • Il suo team ha dimostrato che il lattato non è un prodotto di scarto, ma una molecola segnale (“metabochina”) in grado di modulare il comportamento delle cellule immunitarie
  • Queste scoperte hanno portato alla nascita della startup Solute Guard Therapeutics (SGTX), che sviluppa terapie contro malattie infiammatorie e autoimmuni agendo sui trasportatori del lattato
  • Mauro studia anche l’effetto degli acidi grassi, come il palmitato e gli omega-3, sull’immunità adattativa e l’infiammazione in condizioni di obesità
  • I suoi studi rivelano l’esistenza di un’impronta infiammatoria a lungo termine nei linfociti T causata dall’obesità, che persiste anche dopo la perdita di peso
  • Le stesse vie metaboliche coinvolte nell’obesità giocano un ruolo centrale nell’invecchiamento cellulare e nelle patologie croniche legate all’età
  • Con il progetto europeo UNION, Mauro coordina un network che studia i determinanti molecolari dell’invecchiamento per sviluppare strategie capaci di rallentare il declino immunitario nella popolazione anziana

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