Riparare anziché sostituire. Come? Stimolando la crescita di alcuni tessuti. È questa la nuova prospettiva terapeutica offerta dall’ortobiologia. Siamo nell’ambito della medicina rigenerativa e in campo ortopedico consente un approccio innovativo, non chirurgico e mini invasivo, per il trattamento conservativo delle articolazioni.
Di ortobiologia si è discusso a San Diego durante il Congresso dell’American Academy of Orthopaedic Surgeons. Al meeting annuale della Società americana si raduna il gohta dell’ortopedia a livello mondiale ed era presente anche la Società italiana di ortopedia e traumatologia (Siot).
INNLIFES ha incontrato Pietro Simone Randelli, professore ordinario di Ortopedia e traumatologia all’Università di Milano, direttore della Clinica ortopedica dell’Istituto Gaetano Pini e presidente della Siot. E in questa intervista facciamo il punto sulle nuove opportunità terapeutiche: soluzioni sempre più personalizzate, meno invasive e più efficaci.
Professore, innanzitutto chiariamo che cos’è l’ortobiologia?
«L’ortobiologia è quella branca dell’ortopedia che utilizza strategie finalizzate a stimolare la guarigione dei tessuti dell’apparato muscolo-scheletrico attraverso processi biologici».
Parlando di tecnologie rigenerative di ultima generazione, quali sono le applicazioni cliniche dell’ortobiologia in ortopedia?
«Ce ne sono diverse: pensiamo a tutti i trattamenti a livello cartilagineo, quindi i trapianti cartilaginei; all’utilizzo del plasma ricco di piastrine (Prp) per attivare o accelerare la guarigione dei tessuti; all’utilizzo di cellule staminali mesenchimali estratte, per esempio, dal midollo osseo o dal tessuto adiposo, e poi applicate nel sito da riparare o dove abbiamo una patologia degenerativa e vogliamo rigenerare il segmento.
Si tenga presente che la capacità rigenerativa è propria del corpo umano. Se la corda di un motore inizia a logorarsi, col tempo finirà per rompersi; il corpo umano, invece, agisce per riparare un danno. Si pensi a quando ci feriamo la pelle: il taglio causa un piccolo sanguinamento, che crea un tappo di piastrine, la pelle cicatrizza e noi guariamo. L’ortobiologia sfrutta proprio questi meccanismi, al fine di riattivare o aumentare la capacità rigenerativa e riparativa propria del nostro corpo».
Facendo una panoramica sulle novità emerse al congresso di San Diego, lei ha presentato un’applicazione dell’ortobiologia per riparare i tendini della spalla: di cosa si tratta?
«Al Gaetano Pini di Milano abbiamo studiato la possibilità di utilizzare cellule staminali mesenchimali autologhe, ottenute dal grasso addominale dei pazienti, per migliorare i risultati clinici e la guarigione dei tendini dopo la riparazione artroscopica della cuffia dei rotatori. La via artroscopica è una tecnica chirurgica mini-invasiva utilizzata per trattare problemi articolari. Senza aprire l’articolazione, riattacchiamo i tendini all’osso con delle piccole ancorette in titanio. Ebbene, dopo aver riparato il tendine sofferente, inseriamo l’estratto di cellule mesenchimali staminali di origine adiposa che stimolano le cellule staminali residenti nella zona della cuffia dei rotatori della spalla: le attivano e ne aumentano la proliferazione, per una riparazione migliore».
Al congresso si è discusso anche di una terapia innovativa per la cura dell’artrosi a base di estratti di placenta liofilizzata. In che cosa consiste?
«Questa terapia è denominata ASA, Amniotic Suspension Allograft, ed è oggetto di uno studio clinico di fase 3. Dopo il parto, e seguendo rigorosi processi di certificazione della qualità del prelievo da donatrici selezionate, la placenta viene liofilizzata e attraverso processi di purificazione vengono ottenuti degli estratti. Questi vengono iniettati per stimolare la rigenerazione, la vitalità dei tessuti. Se ne sta studiando l’applicazione per la cura dell’artrosi, in particolare del ginocchio, e dai dati degli studi finora effettuati è emerso che riduce i sintomi nel 75% dei pazienti trattati per almeno un anno, mostrandosi nettamente superiore agli altri trattamenti. Nell’arco di 24 mesi potrebbe entrare nella pratica clinica, rivoluzionando il trattamento dell’artrosi al ginocchio, perché ritarderebbe la necessità di fare protesi».
Parliamo proprio di protesi. Al congresso è stata presentata una protesi innovativa all’anca, che riduce il rischio di lussazione e assicura una maggiore longevità dell’impianto. È a doppia mobilità: cioè?
«Normalmente quando si impianta una protesi d’anca si utilizzano due componenti principali: uno stelo femorale, che viene fissato al femore, e una coppa acetabolare che viene fissata nel bacino. Sulla parte superiore dello stelo viene montata una testina, che si articola all’interno della coppa acetabolare, riproducendo il movimento naturale dell’anca. Si è scoperto che, mettendo sopra questa testina un’ulteriore testina, di dimensioni più grandi, riduciamo la possibilità che questa possa uscire di sede, in altre parole che l’impianto si lussi. Ovviamente, però, aumentando le dimensioni, c’è il problema dell’attrito, quindi dell’usura dell’impianto. Allora è stata studiata una lega metallica anallergica, coperta da brevetto, che permette di ridurre l’usura ai minimi termini, rendendo quindi longevo l’impianto: si stima una longevità superiore ai 30 anni. Un po’ come avere le ruote della macchina di una gomma speciale, che si consuma pochissimo, e così non c’è l’incombenza di cambiare le ruote ogni anno».
In questo caso parliamo già di un dispositivo arrivato in clinica?
«Sì. In Europa dovrebbe arrivare nel corso del 2025. La regolamentazione europea è estremamente farraginosa, e sta rallentando l’arrivo di tutte le innovazioni».
Materiali a parte, quali innovazioni possono fare la differenza nel settore ortopedico?
«Le vie di accesso al paziente. Noi abbiamo una costante necessità di innovazione e, materiali a parte, può fare la differenza il modo in cui si arriva a mettere le protesi. Oggi, per esempio, per accedere all’anca agiamo da una via d’accesso anteriore che riduce tantissimo le perdite di sangue, quindi la necessità di trasfusioni e i tempi di riabilitazione. Perché è una via d’accesso che non richiede il taglio dei muscoli, basta spostarli: questa è stata un’innovazione incredibile. Oggi abbiamo pazienti con protesi d’anca che in un paio di giorni tornano a casa, parliamo quindi di dimissioni precoci e di un decorso post operatorio estremamente rapido. E poi, a livello protesico, oggi il massimo dell’innovazione è la protesi su misura».
Cioè?
«Nel caso del ginocchio, mandiamo la tac dell’arto inferiore del paziente in centri specializzati dove con stampanti 3D realizzano una protesi di ginocchio proprio per quel ginocchio. E così andiamo a sostituire l’articolazione con una nuova articolazione, ovviamente metallica, ma che ha le stesse identiche caratteristiche che aveva quella originaria. La personalizzazione della medicina è il futuro, e in ortopedia si sta andando in quella direzione con le protesi su misura. Al momento, quelle che impiantiamo vengono prodotte in Svizzera, ma si stanno attrezzando anche aziende italiane per realizzarle».
Professore, lei è presidente della Siot: qual è l’obiettivo del suo mandato?
«L’obiettivo principale del mio mandato è arrivare alla certificazione dei chirurghi sulle procedure più importanti. Oggi, uno specialista in ortopedia e traumatologia, dopo i sei anni di medicina e cinque di specializzazione, non ha possibilità di iper specializzarsi con percorsi certificati. Chiaramente lo fa visitando i migliori centri e confrontandosi con i maestri del mestiere, ma questo percorso non è certificato da nessuno. La Siot vuole allora certificare la specializzazione del chirurgo sulla singola procedura: protesi di ginocchio, protesi d’anca, della spalla, tecnologie robotiche e computer assistite. Così come avviene per i piloti degli aerei. Un pilota d’aereo abilitato a guidare il Boeing 737 non può guidare l’Airbus 320».
A proposito di tecnologie robotiche e computer assistite, col robot in sala operatoria migliorano le prestazioni?
«No. Il robot esegue quello che gli dice di fare il chirurgo operatore. Il robot è come un bisturi più preciso nelle mani del chirurgo: è sempre operatore-dipendente. Per di più, almeno al momento, consente di utilizzare solo protesi “off the shelf”, protesi cioè standardizzate, disponibili in diverse misure e modelli, ma non personalizzate. È la protesi su misura la vera innovazione in ortopedia».