I bambini con disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) presentano difficoltà di pianificazione del movimento che possono rimanere nascoste ai test neuropsicologici tradizionali. È quanto emerge da uno studio che, grazie all’utilizzo di un accelerometro indossabile, è riuscito a monitorare l’attività motoria di bambini con e senza diagnosi di ADHD durante lo svolgimento di un compito cognitivo, rivelando strategie compensate meno efficienti nei soggetti con il disturbo.
Lo studio, intitolato “Reduced motor planning underlying inhibition of prepotent responses in children with ADHD”, coordinato da Teresa Farroni dell’università di Padova e Gustavo Marfia dell’università di Bologna, fa luce sulle difficoltà dei bambini e delle bambine con ADHD nell’ inibire azioni automatiche. Immaginiamo, per esempio, il momento del pranzo in una mensa scolastica: i piatti arrivano un po’ alla volta, ma gli insegnanti invitano i bambini e le bambine a mangiare solo quando tutti hanno ricevuto il proprio piatto. Questi ultimi, a un certo punto iniziano a giocare con la forchetta o si muovono in modo scoordinato sulla propria sedia. Queste difficoltà sono solitamente valutate attraverso prove e test cognitivi basati su livelli di accuratezza e velocità nel rispondere a determinati stimoli o istruzioni. Tuttavia, la storia raccontata dai movimenti del loro corpo è molto più ricca e viene trascurata dalla ricerca e dalla pratica clinica. Ne abbiamo parlato con la professoressa Teresa Farroni.
Qual era l’obiettivo dello studio?
«Definire un metodo per monitorare i movimenti dei bambini e delle bambine durante lo svolgimento di prove tradizionali che misurano l’inibizione (la capacità che permette a ogni individuo di regolare il proprio comportamento, in modo da produrre una risposta adeguata rispetto all’obiettivo che ci si è posti o al contesto sociale in cui ci si trova).
Che tipo di movimenti?
«I movimenti in gioco che sono importanti da monitorare sono quelli legati alle funzioni esecutive quali inibizione (fermare l’azione quando non richiesta), auto regolazione (decidere quale azione fare a seconda della situazione) e l’accelerazione (ovvero la traiettoria nello spazio e nel tempo di un’azione)»
Nei laboratori universitari, questo viene fatto con strumenti costosi, ingombranti e complessi da utilizzare. Quale obiettivo avevano i ricercatori?
«Miravano a implementare strumenti semplici, portatili, disponibili in commercio a poco prezzo, che siano quindi utilizzabili su larga scala dai professionisti che si occupano di valutazione neuropsicologica e potenziamento cognitivo. In questa ricerca è stata monitorata l’attività motoria dei bambini e bambine in età scolare – con o senza una diagnosi di ADHD – mentre svolgevano una prova di inibizione di azioni automatiche. I risultati suggeriscono che anche i bambini con ADHD completano correttamente la prova, ma che dedicano minori risorse alla pianificazione dei movimenti con cui svolgono il compito. Nonostante il controllo in corso dell’azione possa aver compensato e portato a una buona prestazione, questa strategia rende difficile l’inibizione in situazioni quotidiane più complesse, in cui l’impulsività (ad esempio la voglia di mangiare senza aspettare i compagni) è difficile da contenere, soprattutto per bambini con ADHD».
Avete utilizzato un sensore indossabile per monitorare le caratteristiche del movimento compiuto dai bambini e dalle bambine durante lo svolgimento di una tradizionale prova cognitiva. In cosa consisteva lo strumento?
«Si tratta di uno strumento indossabile (tipo orologio) che si chiama accellerometro in grado di monitorare/misurare mentre svolgevano una prova di inibizione di azioni automatiche. Con questo strumento è possibile, quindi, vedere non solo lo stato iniziale e finale del movimento, ma anche l’accelerazione che l’individuo fa durante il percorso».
Quali altri strumenti indossabili possono essere utilizzati?
«Dipende da ciò che si vuole misurare. Per esempio, se vogliamo vedere dove il ragazzo/a guarda possiamo usare un eye tracker, uno strumento che dopo un brevissimo riconoscimento dell’occhio è in grado di seguire lo sguardo e darci delle informazioni preziosissime su dove guarda, per quanto tempo o in quanto tempo passa da un punto di osservazione ad un altro. Se, invece, volessimo misurare l’attività neurale sottostante allora abbiamo cuffiette con cui possiamo rilevare i tempi di risposta neurale o la localizzazione delle aree cerebrali coinvolte in ciascun compito».
Quanto è importante oggi la collaborazione informatica-psicologia nello studio dell’ADHD?
«Importantissima, non solo per studiare l’ADHD, ma anche per avere delle misurazioni di qualsiasi fenomeno cognitivo, comportamentale, fisiologico o neurale sia nello sviluppo tipico che atipico che all’occhio umano sarebbe invisibile».
Parliamo di Gamification e Serious Game, quali ruoli potranno avere nella didattica a scuola?
Tengo sempre a sottolineare che qualsiasi strumento si utilizzi a scuola, e sottolineo il fatto che sia uno strumento e non un fine, è importante che l’operatore sappia cosa si vuole ottenere o provocare nei ragazzi e nelle ragazze. Il cervello è un grande recettore di stimoli e i network che si attivano in risposta a questi stimoli sono diversi. Se voglio stimolare l’apprendimento, se voglio stimolare la creatività, se voglio stimolare a livello sensoriale, se voglio favorire il coordinamento oculo motorio o voglio stimolare la memoria, il linguaggio o qualsiasi altra funzione dovrò usare stimolazioni e strumenti diversi. La scuola è un luogo ideale perché ha la competenza dei docenti e la forza sociale del gruppo. Gamification e Serious Game sono entrambi strumenti che possono aiutare in questa direzione, ma non si tratta solo di far imparare attraverso il divertimento, è molto ma molto di più».
Molti studi hanno evidenziato come i bambini con ADHD possano beneficiare di strategie fondate sui videogiochi, come EndeavourRX, approvato dalla FDA, ma non in Europa. Cosa ne pensa?
«Una caratteristica rilevante in molti giochi, inclusa una recente serious game approvata dalla FDA, EndeavourRx, è il multitasking, con gli utenti che affrontano due compiti distrattivi. Tuttavia, le sfide nell’utilizzo di queste terapie digitali sono complesse e assolutamente molto lontane dall’essere risolte. Queste sfide possono essere categorizzate in temi chiave: coinvolgimento, accessibilità, sicurezza, privacy dei dati, e gestione del rischio. Il coinvolgimento, inteso come l’uso ottimale nel tempo previsto, è cruciale per garantire un cambiamento duraturo ed efficace. La preferenza dei consumatori nell’uso di tali strumenti in modi non previsti dagli sviluppatori e la considerazione della tecnologia come non ideale per la cura sono aspetti importanti. L’accessibilità è spesso trascurata, soprattutto per coloro con redditi più bassi, in aree senza accesso a banda larga o con disabilità. La privacy è una preoccupazione, soprattutto negli Stati Uniti, dove le regolamentazioni sono meno rigorose. Leggere attentamente le regole sulla privacy è essenziale per proteggere i dati e ridurre i rischi. Attualmente, non ci sono prove che le terapie digitali di seconda generazione siano dannose e questo è importante, ma i benefici non sono così scontati».
Quale sarà il futuro della riabilitazione con i videogame?
«Le terapie digitali, come quelle menzionate, hanno dimostrato un’elevata efficacia in oltre 100 studi clinici randomizzati (RCTs). Tuttavia, persiste una notevole variabilità sulla loro efficacia, e se le versioni commerciali siano paragonabili a quelle di ricerca. L’impiego delle attività in-app per migliorare risultati clinici e comportamentali è ancora poco chiaro e l’uso senza il supporto clinico risulta meno efficace. Scarsi sono gli studi che confrontano la consulenza tradizionale con quella potenziata dalle tecnologie digitali, suggerendo che l’interazione clinica con un coach o consulente potrebbe essere il fattore chiave nelle terapie digitali guidate. Ulteriori ricerche sono necessarie per identificare le caratteristiche critiche per i risultati».