Il senso di una ricerca fallita: è questo il titolo dell’incontro che ha visto in dialogo al Convegno organizzato da Fondazione Telethon a Rimini Nicola Brunetti-Pierri, ordinario di Genetica e Group Leader del Tigem, ed Elena Cattaneo, ordinario di Farmacologia all’Università degli Studi di Milano e Senatrice.
Con il prof. Brunetti-Pierri abbiamo voluto riprendere alcuni spunti della sessione.
Professore, sembra strano dirlo ma il tema del fallimento rimane sempre presente nel portare avanti delle ricerche mediche. Nel suo intervento ha detto “nella fase 1 di una sperimentazione è già implicito il fallimento”. Ci aiuta a riflettere su questo tema?
«In fase 1 si cerca la dose efficace, partendo dalle dosi basse che siamo sicuri non portino tossicità. E se uno sta cercando la dose efficace, significa che alcuni pazienti, soprattutto all’inizio, non necessariamente riceveranno la dose efficace. Qualche volta si può trovare al primo tentativo, ma non è detto che sia così. Qualche volta la prima dose non è quella efficace e si deve aumentare; qualche volta neanche la seconda è efficace, o la terza. Chi riceve la prima dose ha probabilità più basse di poter godere del beneficio di un farmaco. Questo è necessariamente così perché l’obiettivo primario è non nuocere».
Non è possibile verificare la dose efficace già prima di arrivare all’uomo?
«Non è detto che per forza nelle sperimentazioni precliniche, negli animali, si riescano già a trovare le dosi efficaci. Purtroppo l’animale non è identico all’uomo. In genere l’esperienza ci dice che tutto ciò che si corregge con una certa dose nell’animale non si corregge soltanto parzialmente nell’uomo. Cioè l’uomo è sempre più difficile da correggere rispetto agli altri animali».
Anche la terapia genica può fallire…
«L’esperienza è ancora più eclatante quando il paziente ha l’illusione per un periodo di aver avuto espressione del gene terapeutico. Ma studiando approfonditamente si è capito che il sistema immunitario riconosce le cellule che hanno ricevuto il gene terapeutico perché per qualche settimana continuano ad avere sulla loro superficie alcune proteine del vettore che ha portato il gene terapeutico. In questo periodo il sistema immunitario cerca di rimuovere quelle cellulare perché non le riconosce.
È successo quando ci siamo occupati della terapia diretta alle cellule del fegato nei pazienti con emofilia, qualche anno fa; siamo allora intervenuti con immunosoppressori ed è stata una strategia efficace, seguita con grande attenzione. L’esperienza di quel fallimento è servita per avere una migliore gestione e prevenire la perdita di espressione del gene terapeutico in altri pazienti che avevano ricevuto la terapia genica. Questo fenomeno non era mai stato osservato prima, nessun animale aveva mai avuto questa reazione è stata un fenomeno totalmente umano».
Nel 2024 è stato tra il fondatore e vicepresidente di una nuova società scientifica, la Società Italiana di Terapia Genica Cellulare. Qual è la missione di questa società? Come mai la necessità di creare questa nuova società?
«Esistono in vari paesi europei delle Società di terapia genica e cellulare. Per qualche motivo, nonostante l’Italia sia abbastanza all’avanguardia in questo campo, non c’era ancora una società scientifica. Così abbiamo pensato che l’Italia, che era anche così forte in questo ambito, dovesse avere anche questa società».
Lei è il referente clinico del programma per le malattie senza diagnosi per l’Università Federico II di Napoli. Come possono le nuove tecnologie, in primis l’intelligenza artificiale, supportare questo programma?
«Si parla moltissimo di intelligenza artificiale, però ci sono anche nuove tecnologie di sequenziamento del DNA e del genoma che sono importantissime per risolvere i casi che ancora restano senza diagnosi. Poi l’intelligenza artificiale è uno strumento che si può utilizzare per accelerare l’analisi dei dati che vengono, ma non è l’intelligenza artificiale che fa il sequenziamento; è soltanto uno strumento per accelerare, è l’ultimo passaggio».